Quanto incide l’incidente

Dal 1985, anno della mia prima patente, non avevo mai provocato un incidente. Ma eccolo qua. In autostrada, alle sette di mattina. Errore non esente da scusanti, ma pur sempre un errore.

Ma non è questo il tema della storia. Che racconta non tanto la caduta quanto la pronta rinascita. Insomma, è roba per chi ama il lieto fine. Almeno fino al preventivo del carrozziere.

Succede sempre così: ti accorgi di aver fatto la cazzata quando non hai più speranze. È un decimo di secondo che sembra lunghissimo: vedi l’ostacolo e pensi “Stavolta non me la cavo”. Poi arriva il botto, di cui non senti il rumore: per ragioni oscure non registri alcun “crash!”, così come non ti accorgi degli otto airbag (otto maledizione, avete idea della spesa per sostituire otto airbag?) della Toyota che è leader mondiale nella sicurezza passiva e ci tiene a fartelo capire. Gli otto esplodono con la precisione di un’orchestra anche se in auto sei da solo e lei lo sa.

Ma niente, è così: ti trovi in una nuvola di borotalco leggerissimo, con il naso che pizzica per l’odore delle cariche esplosive. Il primo pensiero è: “Stai fermo, calmo, guardati attorno prima di uscire; chi esce sbaglia sempre”. Solo dopo ti accorgi che il primo pensiero dovrebbe essere: occhio che da dietro potrebbe arrivare una Bmw distratta e centrarti, ormai senza più airbag né il tempo di un ciao.

Sono fortunato: anche se siamo nella terza corsia della A4, le auto in arrivo frenano con calma – non sento nemmeno lo stridio delle gomme – e nel giro di un minuto è già tutto calmo. Nelle altre due corsie le auto sfilano tra occhi curiosi e bestemmianti. Sono già riuscito a scendere forzando la portiera bloccata dai copriruota, ho trovato e indossato il giubbotto, ho aperto e montato il triangolo.

Il tizio del furgone che ho tamponato è un padovano con forte accento dell’est. Per niente aggressivo. Anzi, si scusa: “Ho sbagliato io! Ho frenato di colpo per paura di quello che succedeva nell’altra corsia”.

Curioso spiegargli, davanti al cofano fumante, che la colpa è tutta mia e c’è ben poco da dire. Intanto guardo l’auto e comincio un tristissimo conto della serva: danni cofano ($$), fiancate ($$), radiatore ($$), paraurti anteriore ($$), fanaleria ($$). Dentro è peggio: esplosioni interne ($$$), airbag ($$$), tessuti lacerati ($$$), pezzi in frantumi. Speriamo bene per l’asse anteriore ($$$$), il motore ($$$$), il telaio portante ($$$$).

Mi distraggo andando a piazzare il triangolo una cinquantina di metri indietro, incrociando gli sguardi delle due colonne a passo d’uomo. Qualcuno frena per capire l’accaduto, provocando moltiplicazioni di bestemmie su sei corsie e due carreggiate.

Intanto arriva il furgone della sicurezza autostradale. Due uomini, evidentemente allenati, bloccano tutto sbandierando (siamo al confine tra Padova e Venezia ma la coda, mi spiegano, arriva già a Padova est) e riorganizzano la normalità. Mi chiedono di dare una mano a spingere l’auto sulla corsia di emergenza “sempre che le ruote non siano bloccate”. Non lo sono, per fortuna. Mi pare girino bene, speriamo (- – $!).

Nel frattempo arriva la Stradale: si avvicinano due paia di stivaloni con fare minaccioso (la multa no, dannazione! I punti! $$$) ma se ne vanno spiegando che l’altro tamponamento, poco più avanti, è più importante perché c’è un ferito, anche se leggero.

Allora capisco tutto. Ecco le scuse del ragazzo alla guida del furgone che ho centrato: si era spaventato a causa dell’altro tamponamento, una ventina di metri davanti a noi ma nella corsia centrale. Temendo che una delle due auto gli schizzasse addosso, ha inchiodato d’istinto, tramutandosi in un muro del pianto per il sottoscritto.

Riacquisto consapevolezza. Brutto momento: comincio a guardare bene l’auto, che non somiglia più molto a quella che conosco da anni. E comincio a guardare me stesso, con un rivolo di sangue sulla fronte – causa probabile: lo sportello dell’airbag che il cruscotto mi ha sparato addosso prima del cuscino – e un’incomprensibile botta sul polpaccio che neanche ai tempi del calcio.

Finisce che arriva il carro attrezzi ($), mi porta al primo autogrill per i verbali ($) e infine mi accompagna fuori con mille raccomandazioni: “Lunedì ricordati di pagare il pedaggio d’uscita se no le autostrade ti danno ($$$) anche la multa. Alla fine, mi scarica alla prima officina associata ($), dove chiamo qualcuno e mi faccio portare a casa.

E a casa penso. Che stavo viaggiando verso il Friuli per due giornate piene di formazione (- – $$!). Ovviamente è all’azienda la prima telefonata che ho fatto, all’alba di stamattina, perché nel mio mestiere guai a non presentarsi a un corso: mia piena responsabilità. E penso che passerò l’intero pomeriggio e la giornata successiva a macerarmi nel dolore e nel calcolo dei $$$$.

E poi le telefonate: ai famigliari, le figlie, gli amici, e vai con le foto per mostrare e gli audio per far sentire, dalla voce, che va tutto bene per davvero. E mi prendo centosette consigli che vanno da “Corri in ospedale a farti vedere” a “Non fare una sola mossa in più: il colpo di frusta domattina ti inchioderà al letto!”.

Ma sono un libero professionista, dannaz. Molto libero e poco professionista magari, ma se resto sul divano un giorno e mezzo la sola cosa che lavorerà è la fantasia: la scia di $$$$$$$$$$$$$$$$$$ che via via mi stringe lo stomaco arriverà fino in cantina. E poi non sento niente: colpo di frusta, colpo della strega, colpo d’Alfredo.

Perciò, dopo un pranzo leggero e sottovoce, mi riprendo. Ehi, alla fine non si è fatto male nessuno, giusto? È una fortuna sfacciata. Ma ci pensi se il tuo incidente ne provocava un altro e qualcuno… Guarda, non farmici pensare. Forza che è andata di lusso! Fai il possibile, dimentica l’errore (e l’orrore della $cia), stai nel presente!”

Telefono all’assicurazione, alla Toyota, all’officina. Organizzo il trasporto dell’auto a Vicenza. Pago senza fiatare. Chiamo l’azienda in Friuli, che nel frattempo aveva annullato le due giornate, e dico: “Domani mattina ci sono”. Organizzo il recupero della giornata persa. Carico computer e microfoni, scambio la giacca con il giubbotto e salto sullo scooter. Niente autostrada: la mia Hondina non ha un motore all’altezza. Via di statali e panorami. Parto alle 17,30 in punto: due ore dopo sono al B&B. Salgo a Mezzomonte per una pizza fuori ordinanza con eccellente impasto alle ortiche.

Il fido Pantheon compie 20 anni tra poco: a lui dedicati il romantico tramonto e la pizza alle ortiche.

Il giorno dopo mi alzo: non ho un dolore che sia uno. E vorrei vedere, con tutta la palestra che faccio. Corseggio alla grande. Torno la sera tardi, col sole del tramonto negli occhi, come Tex Willer nelle vecchie copertine di Galep. Per strada, sulla Postumia, sorpasso un incidente con auto nel fossato.

Il giorno seguente è oggi. Mi alzo e, per non lasciare niente di intentato, vado in palestra. Zero dolori, colpi di frusta, colpi di testa. Forza, bisogna far passare anche questa.

Non ho mai ben capito se questo atteggiamento dimostri intelligenza o sia la controprova dell’imbecille che sono. Ma tanto, che mi piaccia o meno, questo sono io.

Maledetti vespisti, avevate ragione

Meglio la Vespa o la Lambretta? La Vespa, dannazione. Lasciatevelo dire da un lambrettista vero ma sincero.

Ho scritto il pezzo che segue una quindicina d’anni fa per chissà quale blog o giornale. Pensavo fosse andato perso per sempre. L’ho ritrovato invece di recente per puro caso, grazie a un blog di vespisti che lo aveva ripubblicato. La rete ne ha tenuto testimonianza. Grazie, ex nemici.

Ve lo consiglio anche in originale: sono decine i commenti, perfino commoventi, dei piaggisti. E senza piaggeria. Un abbraccio a tutti gli scooteristi del mondo. Buona lettura.

Per la serie i grandi amori della mia vita ecco a voi la Lambretta, moto che è la sintesi dell’Italia intera: geniale, pasticciona, perdente, indistruttibile.

La Lambretta non è una Vespa. Meglio partire da qui perché mezza Italia non le distingueva nemmeno negli anni Sessanta, figurarsi ora. In realtà è impossibile sbagliare: la Vespa non tiene la strada ma in compenso non si ferma mai, corre, non vibra, trovi i ricambi anche in Groenlandia. Tanto basta per adorarla.

La Lambretta è diversa: tiene la strada ma in compenso non va quasi mai, corre poco, vibra come un martello pneumatico e non trovi i ricambi nemmeno a Lambrate. E tanto basta per adorarla.

Negli anni Ottanta, quando sono diventato un lambrettista, la scelta era obbligata. Milioni di Vespe Piaggio dominavano le strade italiane. Quattro le principali categorie:

1) le enfant terrible quali la celebre 50 Special, truccate e rifatte che neanche un moderno premier;

2) le ET3 Primavera, che sullo stesso telaio dei cinquantini montavano un portentoso motore 125 cc con tre travasi e filavano come razzi. (Mai capito cosa fossero i travasi e secondo me neppure i vespisti più incalliti. Ma era un’epoca così).

3) le Vespe Px 125, 150 e 200, ultime arrivate e molto combattive. Grosse ma snelle, squadrate ma eleganti. Gioielli: correvano molto, consumavano poco e almeno un paio di volte l’anno riuscivi a restare in piedi dopo una frenata sotto la pioggia.

4) buone ultime le Vespe più vecchie: dalle fenomenali GS alle Rally, scoppiettava un’infinità di modelli che all’epoca ti portavi a casa con 200 mila lire.

A me stavano un po’ sulle scatole. Le ET3 erano diventate lo status symbol dei fighetti; i Px invece andavano fortissimo tra quelli che dalle mie parte si chiamavano amichevolmente funghi, forse per la rapidissima capacità di riproduzione. I fighetti – sempre tiratissimi con polo o cravattini, capello corto e orrendi mocassini col fiocchetto – cominciavano a disperdersi perché attratti dalle auto. Soprattutto le prime odiose Golf GTI, rigorosamente nere.

I funghi tenevano botta. Attaccavano sulle bandinelle del Px enormi adesivi col fricchettone chitarrato spalle al sole. Sul bauletto montavano poi poderose motoradio, con cui sparare il giovane Vasco a tutto volume. Quando ti sorpassavano, prima sentivi Ti voglio beeeeene lascia stare il vestito e poi il vrrooom rotondo e potente del motore.

Mi buttai sulla Lambretta su consiglio dei fratelli Graziani, miei grandi amici. Alberto mi presentò lo scooter con queste sagge parole: “Questa è una Lambretta: motore centrale, grande tenuta di strada, parafango anteriore fisso e linea filantissima. Pare sia la moto dei muratori, ma non è vero: guarda che eleganza senza tempo. Un altro pianeta rispetto ai bidoni della Piaggio”. Concordai immediatamente. Pazienza se non sapevo neppure dove fosse il motore. Anzi, non sapevo nemmeno cosa fosse un motore.

Di sicuro la Lambretta era più magra e meno plasticosa. Quando Antonio mi presentò la sua, appena acquistata da un muratore pentito, la studiammo attentamente con mani, occhi e naso: “Che buon profumo di ferro minerale – disse lui – Lo senti l’odore delle acciaio italiano anni Sessanta, lavorato da operai con le mani grosse, fieri del loro lavoro?” Cazzo se lo sentivo.

Cercai e trovai la mia Lambretta in un garage a Settecà. Era il 1984. Centocinquanta mila lire e divenni proprietario, col cuore che mi batteva forte, di una Lambretta 150 LI (si pronuncia “elle i“) del 1964, appena più vecchia di me, rossa e praticamente perfetta.

In tre giorni non era più rossa né perfetta. Con la bomboletta spray le passai sopra un moderno e combattivo verde militare. Dopo una settimana ripassai un cattivissimo grigio-verde mimetico. Dopo quindici giorni un romantico blu notte metallizzato. Un indaco turchese grigio fumo alla fine del mese. Quando lo strato di colore cominciò a superare le cinque dita, mi imposi di smettere. E magari di imparare a portarla.

Portarla è un modo di dire. La Lambretta non si portava: ti portava. Come i muli dei western, faceva quel che voleva. Si accendeva una volta su tre. Per metterla in moto dovevi spingerla finché il sudore ti colava nelle scarpe. Inoltre si spegneva a suo totale piacimento. Preferibilmente mentre sorpassavi un tir e sull’altra corsia sbucava una corriera.

E poi odiava tutto ciò che avesse a che fare con l’energia elettrica: la candela smetteva di funzionare con l’umidità, con il troppo sole, con il freddo, con il caldo. Lanciava scariche a caso con l’aria troppo pesante o troppo leggera. Tratteneva il fiato per cinque secondi – il motore faceva “uuuuuuuuh!“piantando il telaio sull’asfalto – e poi scaricava tuta la tensione accumulata con un BAAAAAAM! che faceva scattare ogni allarme nel quartiere.

L’impianto di illuminazione era ridicolo: sulle strade buie non vedevi nemmeno la punta del parafango. Non è un caso se i mods (scooteristi inglesi anni sessanta) le riempivano di fanali extra, che comunque non funzionavano.

Per ragioni mai chiarite la Lambretta bruciava continuamente cavi elettrici, lampadine e qualunque cosa potesse far danno. La luce di posizione il martedì, l’anabbagliante nel fine settimana, la luce posteriore praticamente tutte le sere… Quasi sempre a cento metri da una pattuglia di vigili in annoiata attesa.

Ogni volta che una lampadina importante saltava, la luce del cruscotto – la sola sempre attiva – assorbiva tutta la potenza e si trasformava nella lampada della polizia per gli interrogatori. Il flash ti abbagliava come un pugno e tanti auguri per i successivi seicento metri.

Non basta. C’erano anche i cavi d’acciaio che – dal freno alla frizione, dell’acceleratore al cambio – saltavano a piacimento e senza alcuna ragione.

Imparai molte cose in quel periodo. A frenare con le suole come Pronto Soccorso, il protagonista (non a caso lambrettista) di una celebre storia di Stefano Benni. A passare davanti alle pattuglie premendo leggermente il freno per accendere la luce di stop, millantandola posizione. A guidare senza la manopola dell’acceleratore, tirando direttamente il filo spezzato come si fa con le redini di un destriero.

Ma soprattutto imparai a guidare. Le Vespe erano più veloci, scattanti, moderne e numerose. Per tener testa a un Px, nell’asse principale vicentino tra corso Padova e viale Verona, non c’era alternativa: dovevo guidare con la grinta di Ayrton Senna e la testa di Alain Prost.

La sfida col vespista iniziava al semaforo. Un rapido scambio di sguardi dava il via. Il vespista si preparava con le classiche accelerate: Vrum! Vruuum! Il lambrettista non poteva: la Lambretta, delicata e permalosa, si sarebbe spenta subito, per ripicca. Fingendo indifferenza dovevi scansionare il traffico davanti a te e programmare: “Dopo la 131, dopo la 2 cavalli, dopo la Escort c’è il bus numero 7. È la linea Sant’Andrea – Ferrovieri: quindi all’incrocio svolterà a destra per viale IV novembre. Mumble…

Semaforo verde, via! Passavo 131 e 2 cavalli a destra, poi scartavo il bus a sinistra mentre il Px, sparato e ignaro sulla destra, inchiodava per non spiattellarsi contro il dinosauro arancione in sterzata.

Battuto, fottuto e umiliato. Imparassero i percorsi dei bus invece di rincoglionirsi con gli Ac/Dc.

In Lambretta le ragazze non salivano volentieri. Sono sempre un po’ gelose le donne. Capivano che il tuo vero amore era di ferro minerale, non di carne. E poi le vibrazioni erano davvero eccessive. Antonio diceva, ammiccando, che la sella aveva un piacevole effetto vibratore. Magari! A una compagna di scuola che avevo accompagnato a casa, le vibrazioni mandarono in frantumi gli occhiali da vista.

Pochi anni dopo, con la mia terza Lambretta (la vita media, dopo che gli strati di colore e di bestemmie avevano superato ogni limite, non superava i due anni) raggiunsi Taormina, in Sicilia. Era il settembre 1989: fu un viaggio meraviglioso, da solo, a cinquanta all’ora di media. Tutta la costa tirrenica all’andata, l’intera l’adriatica al ritorno.

Ogni odore d’Italia, chilometro dopo chilometro, che neanche un ciclista. Il magnifico motore 150 cc del 1964, recuperato da una quarta Lambretta abbandonata e montato pezzo per pezzo con Antonio (senza la minima competenza di quel che stavamo facendo) aveva grippato già all’andata con un rumore terrificante, il primo giorno di viaggio, dopo seicento chilometri e nei dintorni di Roma. Ma era ripartito senza tante storie dopo un quarto d’ora di raffreddamento e di coccole. A quaranta all’ora ero arrivato a Reggio Calabria, conquistato il traghetto e preso possesso della Trinacria.

Mi arresi alla modernità un paio d’anni più tardi, dopo centoventi forature, sessanta cavi spezzati, quarantanove esplosioni del motore, dodici donne perdute per sempre.

Perfino il più celebre film sui mods inglesi, Quadrophenia, ambientato negli anni Sessanta, mette le cose in chiaro: il protagonista (in foto) è sfigatissimo e ha una Lambretta che, guarda caso… non parte due volte su tre. Mentre il superfigo della pellicola, il malefico Sting, guida una Vespa Gs di eleganza impareggiabile.

Ciò nonostante, e forse proprio per questo, da allora continuo a combattere, difendendo la qualità Lambretta in mostruose discussioni contro i vespisti, sempre troppo numerosi e troppo attrezzati.

Ed eccoci alla morale della storia. Un giorno conobbi un restauratore di Lambrette, appassionato purosangue ma intelligente. Ero nella sua officina. Mi feci coraggio e sussurrai: “Sono un lambrettista anch’io ma devo dirti la verità: secondo me… la Vespa è meglio”. Lui si guardò attorno per assicurarsi che fossimo soli. Chiuse la porta a chiave. Da un cassetto segreto estrasse due scatole di legno: nella prima c’era il cuore di un motore Vespa; nella seconda un cuore Lambretta. Entrambi smontati pezzo per pezzo.

Conta i pezzi della Vespa – disse – sono quindici. Adesso conta quelli Lambretta: novantasei!” Allargò le braccia: “La Vespa è semplicità assoluta, minor costo, minor manutenzione, sviluppo più semplice e mille altri vantaggi. Come abbiamo fatto a resistere, tenendo loro testa per vent’anni, è un miracolo”.

È stato un miracolo, davvero. Ma la Lambretta era viva. Superata, perdente, pasticciona, ma viva. Complicata, elegante, arrancante, vibrante, ma viva. Nemmeno alla mia prima chitarra, nemmeno al mio primo orsacchiotto ho mai voluto tanto bene.

Matteo Rinaldi

Qui la vecchia pagina del Vespa blog con i commenti vespisti:https://old.vesparesources.com/archive/index.php/t-34540.html

I veri killer del calcio italiano

Siamo fuori dai Mondiali per la seconda volta di fila: una storia esemplare per capirne le ragioni 

L’Italia non ha più campioni. Al di là degli errori, della sfortuna e di tanti altri fattori che hanno fermato la squadra di Mancini, la sola vera certezza è questa. Ma le situazioni non nascono dal caso. I colpevoli, consapevoli, ci sono.

Perché altri paesi europei crescono molti più calciatori rispetto a noi? La pochezza dei giovani talenti italiani non era una sorpresa nemmeno vent’anni fa. Ma le soluzioni c’erano e ci sarebbero ancora. Praticabilissime.

Manca la volontà. Questa storia vi racconta come un possibile successo italiano è diventato fallimento. La racconto perché l’ho vissuta in prima persona. Anzi, ne sono stato uno dei protagonisti.

Uno dei momenti migliori per calcio italiano è stato l’indomani di Calciopoli, nel lontano 2006. Sembra un forzatura, ma è la verità. Il sistema calcio era a pezzi e i suoi rovinosi protagonisti in ginocchio; la possibilità che uscissero di scena era altissima.

Pareva l’occasione perfetta per dare spazio a chi ha un’idea più nobile e pulita del calcio. Finalmente la possibilità di trasformare lo sport più amato al mondo in una realtà più sana, capace perfino di programmare il futuro.

Venivo anch’io da una doppia crisi, una piccola e una più importante. Il giornale per cui lavoravo aveva chiuso, obbligandomi a inventare un nuovo lavoro; ma soprattutto ero reduce dai postumi dell’arresto cardiaco che mi aveva colpito nell’estate del 2005.

Il mio nuovo mondo era diventato la formazione: contando su vent’anni di esperienza con la parola scritta, cominciavo a lanciare corsi di scrittura e parallelamente di public speaking.

Approfittai di Calciopoli per bussare alle porte dell’Associazione italiana calciatori. Nel suo piccolo è una potenza: molti la chiamano “il sindacato dei miliardari” ma non è così. Raccogliendo le istanze di tutti i calciatori italiani, l’Aic ha una funzione più nobile: non dei campioni si occupa principalmente, ma dei tanti giocatori delle serie minori, spesso senza stipendio per mesi o lasciati a casa dall’oggi al domani in barba ai contratti.

Rappresentando l’intero mondo del calcio inoltre, l’Aic ha un grande potere, quantomeno di immagine, per le istanze di chi il calcio lo vive sul campo e per chi lo ama. Quando a prendere la parola sono i grandi calciatori, i concetti e le idee dell’associazione diventano di dominio pubblico.

All’indomani di Calciopoli mi presentai con un paio di idee. La sede nazionale è a Vicenza, nella mia città: conoscevo perciò un paio di teste pensanti che qui lavoravano da anni. Proposi quel che avevo in mente e, in poco tempo, presentai due strategie al presidente, che allora era l’avvocato Sergio Campana, fondatore dell’associazione stessa nel lontano 1968.

L’idea era semplice: organizzare una serie di convegni, incontri, dibattiti da portare in giro per l’Italia per ridiscutere l’intero sistema calcio. L’obiettivo: metterlo in crisi dopo quel che era successo e rilanciarlo con logiche nuove. Quale migliore occasione di questa, con l’intero movimento in profonda crisi d’identità?

L’idea era più complessa di come la sto semplificando qui per ragioni di spazio. Ma poco importa giacché non se ne fece nulla. Avremmo dovuto cominciare nell’autunno 2006. Ma durante l’estate il colpo di scena: l’Italia calcistica vinse i Mondiali di Germania contro ogni pronostico.

Pronto per cominciare il mio giro d’Italia, mi ritrovai senza più bicicletta. L’idea di ripulire e rifondare il calcio finì immediatamente nel cestino. Campana fu pratico e risolutivo: “Ora che abbiamo vinto i mondiali, non è proprio il caso di lavorare su questo tema“.

Ma l’idea di partenza – mettere più in luce l’Associazione facendo qualcosa di buono per il sistema calcio – era rimasta. Così aggiunse: “Pensiamo a qualcos’altro. Se trovi un idea che possa funzionare, la portiamo avanti“.

Cominciai a chiamare ex colleghi del giornalismo sportivo e del mondo del calcio. E poi calciatori, dirigenti, allenatori. Fu semplice capire che a parte Calciopoli (da allora banalizzato e dimenticato) il calcio italiano aveva problemi perfino maggiori.

Uno di questi era l’impoverimento, già allora evidente, delle sue basi: spettatori e giocatori. I dati delle società parlavano chiarissimo. Un po’ a causa del calo delle nascite, un po’ delle nuove passioni che conquistavano i cuori dei ragazzi, ogni anno il numero di spettatori e giocatori, potenziali campioni compresi, calava inesorabilmente.

In estrema sintesi: se negli anni Settanta una piccola squadra italiana accoglieva quaranta promettenti ragazzini ogni anno, oggi faticava per portarne al campo dieci. E crollavano le possibilità di crescere un potenziale campione. Ma c’era il tempo per migliorare.

Tornai in Associazione con un progetto che avevo intitolato “La fabbrica dei campioni”. Lo spiegai così: in Italia si pubblicano centinaia di ricerche di tecnica e tattica per i giovani calciatori. Studi, tesi di laurea, libri scritti da grandi maestri. Ma non ne ho trovato uno che spieghi come si costruisce un settore giovanile vincente.

Nessuno risponde a queste domande: meglio lavorare con tanti ragazzi mediamente promettenti o pochi molto promettenti? Quanti allenatori impiegare? Meglio usare sistemi di allenamento e gioco diversi per ogni annata o seguire una linea comune? Che tipo di strutture servono? È più utile investire su ottimi campi da gioco o sui trasporti? Come rapportarsi con i genitori? In che modo si motiva un ragazzino a impegnarsi anche fuori dal campo? Cosa convince un padre ambizioso a non portare via il figlio quando arrivano richieste da una squadra più prestigiosa?

Vi porto esempi banali, perfino sempliciotti. Ma questo era il cuore dell’idea. Scoprimmo poi, durante il nostro anno di lavoro, che le cose importanti sono effettivamente diverse da quelle che possiamo immaginare. Garantire i trasporti, per esempio, è perfino più importante del blasone del club. Nelle famiglie moderne entrambi i genitori lavorano: a convincere la mamma a tesserare il figlio non è la categoria o il rimborso spese ma il pulmino che viene a prendere sotto casa.

Questo tipo di lavoro in Italia non era mai stato fatto. Prima di tutto perché nessun settore giovanile d’avanguardia racconta in giro i suoi segreti. Ma se a porre la domanda è un’associazione super partes come l’Aic, che promette di raccogliere le esperienze per metterle a disposizione di tutti, il discorso cambia.

Questa era la forza del lavoro: unire e raccontare le intuizioni e le realtà dell’Inter, dell’Atalanta, dell’Empoli, del Lecce fino alle società dilettantistiche e di quartiere. E condividerlo tra tutti. Se tutte le società contassero su un metodo condiviso e sulla certezza che ogni società lavora con logica, il club ricco non avrebbe l’interesse a portar via subito i migliori. A sua volta, la piccola società guadagnerà di più, con uno scambio reciproco e meno piratesco.

Il progetto funzionò. Mi diedero carta bianca e, soprattutto, la collaborazione di persone dell’associazione, ex calciatori in primis, che il mondo del calcio lo conoscevano da sempre. Scegliemmo i settori giovanili ideali, ovvero quelli che al momento andavano più forte come innovazione e creatività. Volevamo raccogliere l’esperienza di vivai grandi e piccoli, ricchi e poveri, di città e di provincia… Insomma, una panoramica in cui ogni società potesse rispecchiarsi e ispirarsi.

Fu un lavoro bello, impegnativo, affascinante. Lavorando con il marchio dell’associazione calciatori, i responsabili dei vivai italiani si dimostrarono collaborativi al massimo. Riuscimmo perfino a parlare chiaramente di spese e guadagni: dai costi, voce per voce, ai ricavi dalle vendite dei giocatori. Mettemmo nero su bianco il successo di un buon settore giovanile. I numeri dimostravano che investendo si raccoglie, con pazienza, dieci volte tanto.

In sintesi: il mio compito era fare le domande giuste e raccogliere risposte e testimonianze in modo chiarissimo; infine ordinare i dati “a prova di stupido”, in modo che anche il dirigente della società di quartiere potesse capire come migliorare il suo settore giovanile.

Quel che raccogliemmo – notizie, esperienze, metodi – si dimostrò in molti casi non solo utile ma addirittura sorprendente per la maggior parte delle società professionistiche di serie A, B, C.

Vi racconto un piccolo episodio, giusto per capire il fascino e la difficoltà di crescere ragazzi sperando di farne campioni: ero ospite dell’Atalanta – il vivaio più prestigioso d’Italia – e chiacchieravo con Mino Favini, scomparso nel 2019 ma allora in piena forma e da tutti riconosciuto come uno dei più grandi maestri del calcio giovanile italiano. Per molti, addirittura il numero uno assoluto.

Quella volta uscii un po’ dal seminato. Niente dati e spazio a qualche sensazione in libertà. “Mister, ma lei come lo intuisce un futuro campione? Mettiamo un attimo da parte le logiche, la pazienza, la filosofia per cui non si giudica fino all’ultimo giorno. Tra i suoi colleghi c’è chi dice che conta la tecnica, chi le caratteristiche fisiche, chi la testa, chi la grinta, chi una miscela…

Favini non rispose. Mi fece segno di seguirlo e mi accompagnò dentro una grande stanza del bellissimo centro sportivo di Zingonia. Una parete, bellissima, era interamente tappezzata di piccole foto di giocatori. Immaginate un gigantesco album Panini, tutto in verticale, dal pavimento al soffitto. Centinaia, forse migliaia di visi bambini in maglia nerazzurra.

Stai guardando tutti i giocatori che hanno fatto il settore giovanile qui da noi – disse, indicandomene due affiancati  – Questi, per esempio, per me erano assolutamente identici: le stesse potenzialità, l’identica grinta, un’intelligenza calcistica superiore… Si specchiavamn perfino nella passione. Li riconosci?

Aguzzai la vista. Dal viso bambino del primo intuii i lineamenti di Roberto Donadoni, campionissimo con la maglia dell’Atalanta e soprattutto del Milan di Sacchi. All’altro non riuscivo a dare un nome. “ti ho appena detto che aveva le stesse qualità, come fai a non riconoscerlo?” mi stuzzicava Favini.

Cominciavo a vergognarmi un po’, ma niente da fare. Non mi diceva niente. “Non ti dice niente perché non ha superato nemmeno la Prima categoria. È rimasto un dilettante, vivendo il calcio come hobby. Li ho allenati e studiati assieme, giorno dopo giorno, e mai avrei saputo dirti chi era il migliore. Uno è diventato un campione, l’altro no. Questo è un mondo nel quale nessuno può permettersi certezze. Possiamo solo dare il massimo per i nostri giovani e credere in loro fino all’ultimo giorno. Senza garanzie, se non quella di crescere un ragazzo che sappia diventare uomo.

Lavorammo anche su questo, nella ricerca: crescere uomini, non solo giocatori. I settori giovanili più capaci puntavano anche sull’educazione fuori dal campo, sulla capacità del ragazzo di chiarirsi le idee, superare i momenti difficili, motivarsi e organizzarsi. In molti vivai per esempio è obbligatorio studiare: se vai male a scuola, giochi meno.

I dirigenti più bravi lavoravano duro perfino sul rapporto con i genitori. A Empoli, per dirvene una, gli spettatori venivano allenati all’educazione sportiva: oltre la recinzione niente litigate, parolacce, critiche ad arbitro, allenatore, giocatori o avversari. Altrimenti cartellino giallo e poi rosso, come in campo. E se riuscivano in Toscana, evidentemente è possibile ovunque.

Torno al cuore del concetto. Presentammo la ricerca a Milano, con il nome leggermente corretto. Non più “la fabbrica”, come avevo pensato, ma “L’officina del campioni”. Ce lo suggerì Gianni Palumbo, allora responsabile del settore giovanile dell’Empoli. “Il nostro è un lavoro più artigianale, mai un pezzo uguale all’altro”. Aveva ragione. 

Col titolo “L’officina dei campioni” invitammo tutte le società di A e B, aggiungendo un po’ di C e dilettanti. E ovviamente tutte le alte cariche, dal presidente della Lega calcio, allora Antonio Matarrese, in giù. Dirigenti, responsabili e allenatori dei vivai itialani seguirono le (tre!) ore di presentazione con anima, cervello e cuore. E si dissero d’accordo per portare avanti il progetto in due step:

  1. arricchire e concludere la ricerca raccogliendo le esperienze più interessanti di tutti i settori giovanili italiani, in modo da avere un quadro completo;

per poi:

  1. portare l’Officina in un viaggio itinerante per l’Italia, organizzando incontri regionali e provinciali per coinvolgere tutte le società e dar loro supporto. Avremmo garantito perfino un guadagno con il ritorno d’immagine, gli sponsor e la presenza di allenatori e calciatori a portare le loro testimonianze per stimolare ancor più le persone.

Rendiamo il lavoro ancora più interessante – consigliarono alcuni dirigenti, in chiusura – andando a studiare all’estero: da Svizzera e Spagna per esempio, fino al Nord Europa, abbiamo molto da imparare”. Figuratevi se non l’avrei fatto di corsa.

Tornai in Associazione qualche giorno dopo. Per scoprire che la ricerca era stata chiusa in un cassetto e tanti saluti a tutti. “La Figc (federazione gioco calcio, ndr) ha avuto da ridire – borbottò il presidenter guardando ovunque fuorché verso di me – Dicono che non spetta a noi fare queste cose: è un lavoro loro. Ma per te nessun problema: ti diamo subito da fare un altro lavoro”.

Ovviamente restai di sasso. Senza parole, senza voce, senza idee. Mi succede spesso di non reagire quando sarebbe doveroso farlo. Pensavo: se ne accorge adesso? Ma soprattutto: non può essere vero. Infatti, a posteriori ho scoperto che non lo era.

Qualche giorno dopo ripresi coraggio: fissai un appuntamento proprio alla Figc, su consiglio dell’ex arbitro Luigi Agnolin, che in quel periodo lavorava con la Federazione. Mi fece presentare il progetto a un gruppetto di dirigenti che avevano l’entusiasmo di Mr. Bean. “Ci facciamo sentire”, promisero. Figuratevi.

Ci riprovai qualche anno dopo, quando finalmente Campana lasciò la presidenza (la sola al mondo più lunga di quella di Fidel Castro, come mi spiegavamo ironizzando in Associazione) e gli subentrò l’ex calciatore Damiano Tommasi. Gli presentai il lavoro, ma sommariamente perché aveva poco tempo. Non fece una smorfia, non mosse un muscolo, non disse una parola, non fece una domanda. Chiedo sinceramente scusa ai Mr. Bean della Figc.

Interessantissimo. Mi faccio vivo io”, mi liquidò il suo fido collaboratore. 

Gli scrissi tre volte nell’arco di qualche mese. Mi rispondeva: “È molto interessante, si può fare, ci risentiamo certamente” in tutti i casi. Nell’ultima mail gli scrissi, ma con parole gentili, che poteva andarsene al diavolo. Non mi rispose nemmeno, neanche un interessante.

In sintesi, qual è la morale? Secondo me ne abbiamo tre, rapidissime.

1) Non c’è fare senza affare. L’Aic ha poi fatto qualcosa per il calcio giovanile, sappiatelo. Ha contribuito alla costruzione di alcuni campi sportivi in alcune zone disagiate italiane. Che differenza c’è tra i campi da gioco e i progetti di crescita? Che costruttori, affaristi e quattrini stanno da una parte sola. Dietro alla nostra “Officina” non c’era posto nemmeno per un carpentiere.

2) Chi comanda non rimanda. Nessuno ha l’interesse di far crescere il calcio giovanile. In un mondo che cerca guadagni veloci, un procuratore spingerà sempre per piazzare il giocatore trovato all’estero, pagato dieci e rivenduto a cento. E le società si piegano alla logica: meglio tenersi stretto chi ha potere oggi, non prospettive domani.

3) Siamo italiani e basta la parola. Perché questo lavoro fu ucciso quando era pronto per partire? Sono passati quasi quindici anni, da quei giorni. Guarda caso, le società che allora vantavano i migliori settori giovani sono fiorenti e giocano ai massimi livelli. Una dimostrazione lampante di quanto possa garantire, con un po’ di pazienza, un bel settore giovanile. Ma i giovani di allora non hanno degni eredi.

L’Officina dei campioni fu uccisa perché era un’idea figlia di nessuno. “Sono diventato un campione perché lo ero, non certo per il settore giovanile” disse pubblicamente Campana nei giorni precedenti la presentazione, quando cominciava a rendersi conto che il progetto non gli interessava più. È evidente, secondo me, che non riusciva a sposare un’idea che non aveva avuto lui.

Smettiamo di chiederci perché il calcio italiano peggiora di anno in anno. Questo è solo uno di tanti motivi. E comunque saremo perfino capaci di riprenderci, nel futuro. Anche senza una nuova Calciopoli infatti, la crisi è dietro l’angolo. Magari, una volta ogni tanto, riuscirà a portare qualcosa di buono.

𝗘 𝗮𝗱𝗲𝘀𝘀𝗼 𝘀𝗼𝗻 𝗖𝗮𝘁𝘀

L’inserto del Giornale di Vicenza dedica una bella intervista a me e al mio mondo: il public speaking, la scrittura, la comunicazione.

Tanti anni fa, quand’era giovane e saggio, Michele Serra scrisse una frase che mi è rimasta impressa: “La vita di un uomo è sporcata per sempre se ne parla un settimanale”.

Fortuna che sono abbastanza vecchio per non preoccuparmene troppo. Scherzi a parte, oggi su Cats, inserto del Giornale di Vicenza, è uscita l’intervista con cui Lorenzo Parolin presenta me, il mio lavoro e i miei corsi.

Fin troppo buono (mi fa apparire più cool di Roberto Re), Lorenzo racconta bene la mia passione per la buona comunicazione, scritta e parlata.

Giuro però di non aver mai detto “quand’ero cronista passavo le giornate a consumare le suole a caccia di notizie“. È una chiara proiezione di Lorenzo, che invece le consuma davvero perché è molto più cronista di quanto fossi io.

Belle anche le foto, direi. E pazienza se da quello che dico appaio più intelligente e in gamba di ciò che sono.
Forza, una copia del Giornale di Vicenza in edicola e poi siete invitati a commentare in modo impietoso, critico & feroce.

Come scrivere post di successo… sotto processo

Così la buona scrittura batte i mille inconvenienti della formazione on line

Ieri sera ho tenuto la prima lezione di “Scrivere post di successo”, corso on line gestito da Agform Venezia in collaborazione con Esac Vicenza. La promessa: dar vita, in cinque serate, ai cinque segreti della scrittura social.

L’accesso. Non è stata una passeggiata ma una salita a ostacoli. Però chiariamoci, prima di raccontarla: un cosa sono i titoli, un’altra la realtà. Non esistono realmente i cinque segreti. E parole come “successo” sono forzature.

La verità è umile e parla semplice: per farci leggere con amore, impegniamoci a scrivere con amore. E sempre meglio. Cominciando bene, per esempio. È il primo segreto: chi inizia bene – un buon titolo, una bella immagine, un attacco creativo – ha la strada aperta. Ma senza prendere in giro i lettori: non promettiamo la luna se poi parliamo di patate.

La serata comincia bene. Condivido lo schermo con una bella squadra, motivata e sorridente. Sette persone e nemmeno un problema di collegamento. Le videocamere funzionano, i microfoni anche. Ci presentiamo: chi siamo, cosa facciamo, obiettivi. Perfette anche le voci e la chiarezza di intenti. Fantastico. Troppo. Ecco il patatrac. Puff! 

Miriam, Massimo, Nadia, Maddalena, Annalaura, Debora e Sofia scompaiono nel nulla. Lo schermo si svuota e resto solo nel silenzio, immerso in quel senso di smarrimento totale che ti prende solo nel mondo online.

Il processo. Avete presente l’angoscia? Mi assale assieme al senso di colpa: sono il docente – mi dico – ed è evidentemente colpa mia. Intanto impreco sottovoce (per forza: metti che l’audio sia la sola cosa che funziona) e me la prendo con il resto della casa. Grido: “Chi sta occupando internet? Sto lavorandoooo!

Purtroppo nessuno sta scaricando film bielorussi o chattando con la Giamaica. Allora cerco capri espiatori nel computer (è vecchio e sempre pieno, perché non lo svuoto più spesso?) in Fastweb (maledetti, mi avevano promesso una connessione che neanche alla Nasa), nell’onnipotente, nei demoni, nella sfiga, nel caso, nel magma esoterico laterale. 

Il senso di impotenza che provi in quei momenti è orrendo. Mi controllo: faccio le cose con calma e torno in linea in tempi record, neanche trenta secondi. Ma il mio sorriso rassicurante è destinato a spegnersi dopo dieci minuti: puff!, di nuovo solo con lo schermo vuoto.

Allora ho un colpo di genio. Stacco il wi-fi e mi collego col telefono: meno qualità, più continuità! Dai che funziona. A volte, le cose semplici… Infatti funziona: per dieci minuti. Poi puff!, ancora nel vuoto, nella terra di mezzo, nel niente cosmico. Non so che fare ma, quel che è più grave, non so più con chi prendermela. Signora mia, dove andremo a finire senza qualcuno su cui scaricare le responsabilità?

Finalmente la pausa. Ho dieci minuti per cavarmela: spengo tutto, lascio riposare, riavvio. Butto via tonnellate di documenti, anche importantissimi, raffreddo il motore, cambio l’olio. Già che ci sono requisisco tutti i telefoni e i computer di casa (nelle emergenze vige la legge militare). Infine riaccendo e, avendo ancora un minuto libero, rileggo l’email con il link del corso. Dove scopro che è tutta colpa mia. È scritto chiaramente: “Si raccomanda di usare il programma Chrome”. Me n’ero dimenticato! Ne ho usato un altro, sbagliato. Pst: lo so da anni che è sbagliato. Ops! 

Scrivere la verità, sappiatelo, è un altro bel segreto della nostra scrittura. Dove ci teniamo invece ad apparire maestrini e sicuri di noi.

Spero che il gruppo mi perdoni. Rientro in pista sollevato, con il programma giusto. Mi scuso, prometto che terrò la seconda puntata col capo cosparso di cenere. Che farò un corso anch’io, ma dall’altra parte della cattedra: “Computer for dummies”. 

L’eccesso. Si ride. Si ricomincia. Va finalmente tutto bene. Per dieci minuti: all’undicesimo… Puff! Non ci credo. Di nuovo solo nell’universo. Neanche Mia Martini a farmi compagnia. Trentasei pensieri mi attraversano la testa. Non uno o due, come da media maschile. Trentasei, che neanche una donna. 

Da “Che faccio ora? Forse, se cambio stanza e mi avvicino al router…” a “Perché non ho fatto l’orafo, quella volta? La professione mi avrebbe permesso oggidì di avere già raggiunto una sostanziosa pensione e…”, sbuca un curioso “Wow! Però è bello scoprire che non era del tutto colpa mia!”. Rassicurante, ma non d’aiuto per arrivare in fondo. Qui vado a fondo, più che in fondo.

Invece ce la facciamo. Mantengo la rotta perché ne ho viste di tutti i colori, in questi mari tempestosi. Calma, logica, fantasia e avanti sempre, accidentaccio. 

Non importa se abbiamo fatto meno del previsto. A volte è meglio togliere che aggiungere. Proprio come nella scrittura: tagliare sempre. È un altro magnifico segreto per farsi leggere. Se impari a tagliare, puoi anche scrivere post lunghissimi come questo. Scorrono. Nessuno ti abbandona lungo la strada.

Tanto lo so come andrà a finire. La settimana prossima, a cinque minuti dal via, mi verrà in mente che avrei dovuto svuotare il computer, cambiare posizione, sistemare il router, schiaffeggiare il signor Fastweb. 

Ma ce la caveremo. Perché la continuità è un altro grande segreto. Mollate ogni tanto: scrivere è faticoso, come correre, studiare, allenarsi, portare pazienza… A volte bisogna liberare la testa. Però riprendete. Scrivete tutti i giorni e soprattutto rileggete. Anche cinque volte, prima di pubblicare. Io lo faccio sempre. Anche in questo caso, ovviamente. Se trovate un errore, fosse anche una virgola fuori posto, un doppio spazio, una ripetizione, avanzate un caffè. Ma non ce la farete, scommettiamo?

Bono è nudo ma non ditelo ai giornali

Il cantante degli U2 prende a sberle l’informazione idiota di casa nostra. 

Non passa giorno senza che i media pubblichino stupidaggini spacciandole per informazioni o, peggio ancora, opinioni. Le ultime sono firmate da Gino Castaldo, critico musicale di Repubblica, che attacca Bono per aver parlato male, qualche giorno fa in un podcast, del nome “U2”, di molti brani e addirittura della propria voce.

Un lettore con un minimo di autoironia sorride e fa il tifo per Bono. Non tanto per quel “non mi piace la mia voce”, che è un classico tra i cantanti. Decisamente più coraggioso il fatto di stroncare canzoni che hai venduto a milioni di persone.

Eppure non conosco nessun amante degli U2 che sia sentito tradito o abbia gettato i dischi dalla finestra. Bono può aver scherzato, esagerato apposta, reagito male. Magari era stato multato da un vigile prima dell’intervista. E comunque, da buon artista, ogni tanto dà di matto e dimentica di essere a capo di un’azienda multinazionale. Succede.

Stupisce invece la reazione di Castaldo, la cosiddetta informazione. Che ci va giù pesante: “La verità è che imbarazzati siamo noi per come distrugge un patrimonio e si fa beffe della credulità della gente”. E poi: “Le rockstar possono impazzire, è bene tenerlo a mente”. E vai con un pippozzo moralista con l’apice dedicato alla sofferenza “di tutti quelli che hanno pensato che Joshua tree fosse uno dei dischi più belli mai pubblicati e che Achtung baby e One fossero frutto di illuminazioni superiori”.

Non poteva mancare la chiusura retorica e teatrale: “Ci siamo sbagliati tutti, hanno fatto schifo, è stato un abbaglio. Ce lo dice Bono, la voce del gruppo, quello che ha scritto le canzoni che credevamo capolavori e invece sono calessi, bagatelle, schifezzuole. Caro Bono, ma arrivati a questo punto, non era meglio tacere?

Su chi dovrebbe tacere avrei altre idee, ma non importa. Ci metto invece una morale anch’io, meno teatrale. Non sugli U2, che apprezzo ma non ho mai amato. Su Castaldo, la perfetta immagine del giornalismo oggi: l’arte di guardare il mondo dal proprio piccolo punto di vista, senza umiltà, fantasia, curiosità.

Per quelli come Castaldo i miti sono indispensabili: che siano cantanti, calciatori o uomini politici, “quelli che ce l’hanno fatta” diventano la soluzione più facile per avere riferimenti precisi. È così difficile nel mondo di oggi. Succede in modo automatico anche a noi persone, portate istintivamente a mitizzare il politico migliore, lo scrittore, l’autore, il cantore (oggi perfino il cucinatore, dannazione).

Il giornalista mediocre ha capito che per raccontare le gesta di un presidente di regione, di un chitarrista o di un centrocampista, diventa tutto più semplice se li metti sotto ai riflettori e li chiami campioni, supereroi, fenomeni, geni. Con la piacevole conseguenza che un po’ di quella luce illumina anche te.

Mi piacerebbe rileggere le decine di pezzi in cui i mille Castaldo della musica osannano i loro eroi: “Pietra miliare della musica”; “Capolavoro fuori dal tempo”; “Intuizione musicale di origine divina”. È lo stesso identico stile del più stupido giornalismo politico, sportivo, economico, culturale.

Morale. Ogni volta che un qualsiasi Bono scherza su un mito, ad andare in crisi non siamo noi persone. Ci mettiamo un attimo a trovarne uno di nuovo. A crollare sono i cantori dei miti, costretti a ricominciare tutto da capo.

Io comunque ringrazio sia Bono che Castaldo. Mi aiutano a ricordare che l’ultima cosa di cui posso fidarmi sono proprio le mie banalissime opinioni. 


Odio le parolacce (4)

Tra le peggiori parolacce di quest’epoca, “visualizzare” e soprattutto il sostantivo “visualizzazioni” sono diventate comunissime soprattutto nel mondo web. “Ha avuto un sacco di visualizzazioni!” si dice comunemente.

Facciamo un piccolo sforzo: buttiamo via questa parola lunga (sei sillabe, un record), rumorosa (tre zeta e una esse, un orrore) e soprattutto sbagliata.

Visualizzare non è sinonimo di vedere. Alla lettera significa: rendere visibile qualcosa che non lo è. La macchina con cui vi fanno i raggi, all’ospedale, visualizza lo stato interno del vostro corpo. Non avete altro modo di farlo.

Si visualizza anche nel mondo dello sport. Agli atleti si dice: “Visualizza te stesso mentre raggiungi un traguardo”. È un gioco di fantasia che dà fiducia.

Quindi visualizzare significa riuscire a vedere qualcosa che non esiste realmente. Un video esiste. Una foto esiste, anche se digitale. Un post esiste. Quindi non possiamo visualizzarli: li vediamo e basta.

La parola giusta è visioni. “Quante visioni ha avuto il mio video?”  Certo, “visione” ha anche un senso figurato, che ci frega. Ma è la parola giusta. Il suo primo significato è perfetto. Quel che vedo è una visione, punto e basta.

Ps: le iscrizioni al “Discorso del re” e ad “Altrimenti ci arrabbiamo” proseguono fino al prossimo lunedì. Forza: dovete semplicemente… vedere di che si tratta (pdf nei post precedenti), visualizzare l’effetto che avranno su di voi e iscrivervi.

Come si accenta la pandemia

Partiamo dal primattore, il Còvid. Si pronuncia con la o aperta, come mòda e nòdo. Facile, giusto? Quasi come pandemìa, che avendo l’accento sulla i non permette di sbagliare e mette tutti d’accordo. (Ricordo che solo le migliaia di parole accentate in “e” ed “o” mettono in crisi tutti noi italiani)

Occhio infatti a pandèmico, che si pronuncia con la è aperta, come la terza persona del verbo essere. Non pandémico con la e di séte; è un milanesismo che non si può sentire.

Lo stesso vale per quarantèna, termine di uso quotidiano; che ci piaccia o meno la e accentata si pronuncia aperta & rotonda. Bresciani, milanesi, comaschi, eccetera… rassegnatevi! E abituatevi a spalancare la bocca anche per medico. Mèdico, accidenti! Come l’influènza, che si pronuncia così, con la e aperta. Pazienza se il suono dell’influènza fa rabbrividire tutto il nord, dalla Val d’Aosta alla Venezia Giulia.

A piemontesi, pugliesi, calabresi e siciliani in primis, sottolineo invece che parole pandemiche quali protezióni, untóre e perfino respiratóre si pronunciano con la o stretta. Come il dottóre, tra parentesi.

Al contrario, il laboratòrio è sempre aperto, non solo per sfornare risultati: la o si spalanca, va bene? Non c’è altro sistèma – con la e aperta – per una vera ripartènza – anch’essa aperta, che ci piaccia a meno.

Altrimenti tutti in isolaménto, sempre attenti al distanziaménto, ma con le e chiuse, a denti stretti, come faticano a pronunciare marchigiani e campani.

Concludo raccomandandovi la massima igiène, con la e aperta. Altrimenti per l’immunità di grégge – con la e ben chiusa – dovremo aspettare chissà quanto ancora.

Nel frattempo… venite a fareIl discorso del re”. Qui tutti i dati e le date. Per conoscere l’anima della lingua italiana, parlarla bene, farsi capire prima e meglio. Fuggiamo da questo lazzaretto al più presto. E impariamo… ad accentarlo. Lazzarètto, come il tètto e l’effètto? Oppure lazzarétto come lo strétto e l’ométto?

Odio le parolacce (3)

Quando leggo “una commedia esilarante” scappo a tutta velocità. È forse l’aggettivo più abusato in quest’epoca di pandemia.

Chiuso in casa a guardare la tivù, cercando informazioni su film sconosciuti, m’imbatto decine di volte sul dannato “esilarante”. Mi dà l’idea di una specie di garanzia che dovrebbe sciogliere ogni resistenza e lanciarmi nella visione.

Chi scrive “esilarante” pensa sia sinonimo di divertente. Invece significa “che fa ridere a crepapelle, fino alle lacrime”.

Ora, di film capaci di tanto ce n’è forse uno su trenta. Forse. I restanti strappano al massimo qualche smorfia. Morale: se il film fa sorridere, limitatevi a “divertente, piacevole, accattivante”. Se strappa perfino qualche risata, scrivete “comico, spassoso, umoristico”. Esilarante basta. A esagerare si diventa solo più esili.

Odio le parolacce (2)

Le parole brutte, stupide e soprattutto abusate sono tantissime. Quindi perché darsi tanta pena? Perché un po’ alla volta bisogna smascherarle. Che ne dite di mozzafiato? Una delle peggiori, secondo me.

La si legge ovunque: non esiste luogo, paesaggio, panorama, scorcio, immagine che non venga definita mozzafiato due volte su tre. 

Ora, le cose che mozzano il fiato, cioè che ti lasciano per un attimo senza respiro, sono pochissime: alcune giostre estreme; un pugno nello stomaco; una notizia forte del tutto inattesa. Ma non un paesaggio, dannazione. Un bel paesaggio ha l’effetto opposto, semmai: rilassa, rallenta la respirazione e apre un respiro vero e profondo.

E poi la parola in sé: il verbo mozzare è brutto come pochi e decisamente più regionale che nazionale. Dall’Emilia in su non si può sentire.

Quindi, se usate mozzafiato per evidenziare qualcosa di bello, fatemi il favore: tre secondi di sforzo mentale alla ricerca di alternative. Ce ne sono a decine.

Ps: un corso che non mozza ma rilassa il fiato, scioglie la respirazione, cancella le tensione va in scena on line dalla fine del mese: si chiama “Altrimenti ci arrabbiamo” e ne trovate notizia qui: informazioni, caratteristiche, costo.

Impariamo a non prendercela, a sciogliere le tensioni, a essere più consapevoli dei nostri inevitabili rancori. Si può e si deve.