Meglio la Vespa o la Lambretta? La Vespa, dannazione. Lasciatevelo dire da un lambrettista vero ma sincero.
Ho scritto il pezzo che segue una quindicina d’anni fa per chissà quale blog o giornale. Pensavo fosse andato perso per sempre. L’ho ritrovato invece di recente per puro caso, grazie a un blog di vespisti che lo aveva ripubblicato. La rete ne ha tenuto testimonianza. Grazie, ex nemici.
Ve lo consiglio anche in originale: sono decine i commenti, perfino commoventi, dei piaggisti. E senza piaggeria. Un abbraccio a tutti gli scooteristi del mondo. Buona lettura.
Per la serie i grandi amori della mia vita ecco a voi la Lambretta, moto che è la sintesi dell’Italia intera: geniale, pasticciona, perdente, indistruttibile.
La Lambretta non è una Vespa. Meglio partire da qui perché mezza Italia non le distingueva nemmeno negli anni Sessanta, figurarsi ora. In realtà è impossibile sbagliare: la Vespa non tiene la strada ma in compenso non si ferma mai, corre, non vibra, trovi i ricambi anche in Groenlandia. Tanto basta per adorarla.
La Lambretta è diversa: tiene la strada ma in compenso non va quasi mai, corre poco, vibra come un martello pneumatico e non trovi i ricambi nemmeno a Lambrate. E tanto basta per adorarla.
Negli anni Ottanta, quando sono diventato un lambrettista, la scelta era obbligata. Milioni di Vespe Piaggio dominavano le strade italiane. Quattro le principali categorie:
1) le enfant terrible quali la celebre 50 Special, truccate e rifatte che neanche un moderno premier;
2) le ET3 Primavera, che sullo stesso telaio dei cinquantini montavano un portentoso motore 125 cc con tre travasi e filavano come razzi. (Mai capito cosa fossero i travasi e secondo me neppure i vespisti più incalliti. Ma era un’epoca così).
3) le Vespe Px 125, 150 e 200, ultime arrivate e molto combattive. Grosse ma snelle, squadrate ma eleganti. Gioielli: correvano molto, consumavano poco e almeno un paio di volte l’anno riuscivi a restare in piedi dopo una frenata sotto la pioggia.
4) buone ultime le Vespe più vecchie: dalle fenomenali GS alle Rally, scoppiettava un’infinità di modelli che all’epoca ti portavi a casa con 200 mila lire.
A me stavano un po’ sulle scatole. Le ET3 erano diventate lo status symbol dei fighetti; i Px invece andavano fortissimo tra quelli che dalle mie parte si chiamavano amichevolmente funghi, forse per la rapidissima capacità di riproduzione. I fighetti – sempre tiratissimi con polo o cravattini, capello corto e orrendi mocassini col fiocchetto – cominciavano a disperdersi perché attratti dalle auto. Soprattutto le prime odiose Golf GTI, rigorosamente nere.
I funghi tenevano botta. Attaccavano sulle bandinelle del Px enormi adesivi col fricchettone chitarrato spalle al sole. Sul bauletto montavano poi poderose motoradio, con cui sparare il giovane Vasco a tutto volume. Quando ti sorpassavano, prima sentivi Ti voglio beeeeene lascia stare il vestito e poi il vrrooom rotondo e potente del motore.
Mi buttai sulla Lambretta su consiglio dei fratelli Graziani, miei grandi amici. Alberto mi presentò lo scooter con queste sagge parole: “Questa è una Lambretta: motore centrale, grande tenuta di strada, parafango anteriore fisso e linea filantissima. Pare sia la moto dei muratori, ma non è vero: guarda che eleganza senza tempo. Un altro pianeta rispetto ai bidoni della Piaggio”. Concordai immediatamente. Pazienza se non sapevo neppure dove fosse il motore. Anzi, non sapevo nemmeno cosa fosse un motore.
Di sicuro la Lambretta era più magra e meno plasticosa. Quando Antonio mi presentò la sua, appena acquistata da un muratore pentito, la studiammo attentamente con mani, occhi e naso: “Che buon profumo di ferro minerale – disse lui – Lo senti l’odore delle acciaio italiano anni Sessanta, lavorato da operai con le mani grosse, fieri del loro lavoro?” Cazzo se lo sentivo.
Cercai e trovai la mia Lambretta in un garage a Settecà. Era il 1984. Centocinquanta mila lire e divenni proprietario, col cuore che mi batteva forte, di una Lambretta 150 LI (si pronuncia “elle i“) del 1964, appena più vecchia di me, rossa e praticamente perfetta.
In tre giorni non era più rossa né perfetta. Con la bomboletta spray le passai sopra un moderno e combattivo verde militare. Dopo una settimana ripassai un cattivissimo grigio-verde mimetico. Dopo quindici giorni un romantico blu notte metallizzato. Un indaco turchese grigio fumo alla fine del mese. Quando lo strato di colore cominciò a superare le cinque dita, mi imposi di smettere. E magari di imparare a portarla.
Portarla è un modo di dire. La Lambretta non si portava: ti portava. Come i muli dei western, faceva quel che voleva. Si accendeva una volta su tre. Per metterla in moto dovevi spingerla finché il sudore ti colava nelle scarpe. Inoltre si spegneva a suo totale piacimento. Preferibilmente mentre sorpassavi un tir e sull’altra corsia sbucava una corriera.
E poi odiava tutto ciò che avesse a che fare con l’energia elettrica: la candela smetteva di funzionare con l’umidità, con il troppo sole, con il freddo, con il caldo. Lanciava scariche a caso con l’aria troppo pesante o troppo leggera. Tratteneva il fiato per cinque secondi – il motore faceva “uuuuuuuuh!“piantando il telaio sull’asfalto – e poi scaricava tuta la tensione accumulata con un BAAAAAAM! che faceva scattare ogni allarme nel quartiere.
L’impianto di illuminazione era ridicolo: sulle strade buie non vedevi nemmeno la punta del parafango. Non è un caso se i mods (scooteristi inglesi anni sessanta) le riempivano di fanali extra, che comunque non funzionavano.
Per ragioni mai chiarite la Lambretta bruciava continuamente cavi elettrici, lampadine e qualunque cosa potesse far danno. La luce di posizione il martedì, l’anabbagliante nel fine settimana, la luce posteriore praticamente tutte le sere… Quasi sempre a cento metri da una pattuglia di vigili in annoiata attesa.
Ogni volta che una lampadina importante saltava, la luce del cruscotto – la sola sempre attiva – assorbiva tutta la potenza e si trasformava nella lampada della polizia per gli interrogatori. Il flash ti abbagliava come un pugno e tanti auguri per i successivi seicento metri.
Non basta. C’erano anche i cavi d’acciaio che – dal freno alla frizione, dell’acceleratore al cambio – saltavano a piacimento e senza alcuna ragione.
Imparai molte cose in quel periodo. A frenare con le suole come Pronto Soccorso, il protagonista (non a caso lambrettista) di una celebre storia di Stefano Benni. A passare davanti alle pattuglie premendo leggermente il freno per accendere la luce di stop, millantandola posizione. A guidare senza la manopola dell’acceleratore, tirando direttamente il filo spezzato come si fa con le redini di un destriero.
Ma soprattutto imparai a guidare. Le Vespe erano più veloci, scattanti, moderne e numerose. Per tener testa a un Px, nell’asse principale vicentino tra corso Padova e viale Verona, non c’era alternativa: dovevo guidare con la grinta di Ayrton Senna e la testa di Alain Prost.
La sfida col vespista iniziava al semaforo. Un rapido scambio di sguardi dava il via. Il vespista si preparava con le classiche accelerate: Vrum! Vruuum! Il lambrettista non poteva: la Lambretta, delicata e permalosa, si sarebbe spenta subito, per ripicca. Fingendo indifferenza dovevi scansionare il traffico davanti a te e programmare: “Dopo la 131, dopo la 2 cavalli, dopo la Escort c’è il bus numero 7. È la linea Sant’Andrea – Ferrovieri: quindi all’incrocio svolterà a destra per viale IV novembre. Mumble…”
Semaforo verde, via! Passavo 131 e 2 cavalli a destra, poi scartavo il bus a sinistra mentre il Px, sparato e ignaro sulla destra, inchiodava per non spiattellarsi contro il dinosauro arancione in sterzata.
Battuto, fottuto e umiliato. Imparassero i percorsi dei bus invece di rincoglionirsi con gli Ac/Dc.
In Lambretta le ragazze non salivano volentieri. Sono sempre un po’ gelose le donne. Capivano che il tuo vero amore era di ferro minerale, non di carne. E poi le vibrazioni erano davvero eccessive. Antonio diceva, ammiccando, che la sella aveva un piacevole effetto vibratore. Magari! A una compagna di scuola che avevo accompagnato a casa, le vibrazioni mandarono in frantumi gli occhiali da vista.
Pochi anni dopo, con la mia terza Lambretta (la vita media, dopo che gli strati di colore e di bestemmie avevano superato ogni limite, non superava i due anni) raggiunsi Taormina, in Sicilia. Era il settembre 1989: fu un viaggio meraviglioso, da solo, a cinquanta all’ora di media. Tutta la costa tirrenica all’andata, l’intera l’adriatica al ritorno.
Ogni odore d’Italia, chilometro dopo chilometro, che neanche un ciclista. Il magnifico motore 150 cc del 1964, recuperato da una quarta Lambretta abbandonata e montato pezzo per pezzo con Antonio (senza la minima competenza di quel che stavamo facendo) aveva grippato già all’andata con un rumore terrificante, il primo giorno di viaggio, dopo seicento chilometri e nei dintorni di Roma. Ma era ripartito senza tante storie dopo un quarto d’ora di raffreddamento e di coccole. A quaranta all’ora ero arrivato a Reggio Calabria, conquistato il traghetto e preso possesso della Trinacria.
Mi arresi alla modernità un paio d’anni più tardi, dopo centoventi forature, sessanta cavi spezzati, quarantanove esplosioni del motore, dodici donne perdute per sempre.
Perfino il più celebre film sui mods inglesi, Quadrophenia, ambientato negli anni Sessanta, mette le cose in chiaro: il protagonista (in foto) è sfigatissimo e ha una Lambretta che, guarda caso… non parte due volte su tre. Mentre il superfigo della pellicola, il malefico Sting, guida una Vespa Gs di eleganza impareggiabile.
Ciò nonostante, e forse proprio per questo, da allora continuo a combattere, difendendo la qualità Lambretta in mostruose discussioni contro i vespisti, sempre troppo numerosi e troppo attrezzati.
Ed eccoci alla morale della storia. Un giorno conobbi un restauratore di Lambrette, appassionato purosangue ma intelligente. Ero nella sua officina. Mi feci coraggio e sussurrai: “Sono un lambrettista anch’io ma devo dirti la verità: secondo me… la Vespa è meglio”. Lui si guardò attorno per assicurarsi che fossimo soli. Chiuse la porta a chiave. Da un cassetto segreto estrasse due scatole di legno: nella prima c’era il cuore di un motore Vespa; nella seconda un cuore Lambretta. Entrambi smontati pezzo per pezzo.
“Conta i pezzi della Vespa – disse – sono quindici. Adesso conta quelli Lambretta: novantasei!” Allargò le braccia: “La Vespa è semplicità assoluta, minor costo, minor manutenzione, sviluppo più semplice e mille altri vantaggi. Come abbiamo fatto a resistere, tenendo loro testa per vent’anni, è un miracolo”.
È stato un miracolo, davvero. Ma la Lambretta era viva. Superata, perdente, pasticciona, ma viva. Complicata, elegante, arrancante, vibrante, ma viva. Nemmeno alla mia prima chitarra, nemmeno al mio primo orsacchiotto ho mai voluto tanto bene.
Matteo Rinaldi
Qui la vecchia pagina del Vespa blog con i commenti vespisti:https://old.vesparesources.com/archive/index.php/t-34540.html
Concetto meravigliosamente centrato: “La Lambretta non si porta: ti porta. Come i muli dei western, fa quel che vuole. Si accende una volta su tre. Per metterla in moto devi spingerla finché il sudore ti cola nelle scarpe. Inoltre si spegne a suo totale piacimento.”.
Leggendo il tuo scritto si ha la certezza che tu sia uno che se ne intende, che la conosca, che con Lei abbia patito e gioito. Infatti, come ben sai, per capire se uno scooterista possieda una Vespa oppure una Lambretta … basta guardargli le mani. Il possessore di quelle sempre tragicamente unte di grasso è … un Lambrettista. E forse è proprio per questo che le amiamo. Gli strizzacervelli lo chiamano “spirito crocerossino”.
Inoltre, se proprio devo entrare nel campo del confronto, è evidente, come scrivi tu, che sotto il profilo eminentemente tecnico la Vespa sia più avanti. Non si rompe mai, e mai vuol dire proprio mai.
Però questo ti toglie il piacere di intervenire durante le lunghe maratone estive. Nessun Vespista proverà mai la soddisfazione di smontare volano, piatto puntine, frizione, catena di trasmissione, parastrappi, cilindro e pistone in mezzo al nulla, senza aiuto ed ombra, con le cavallette che ti passano tra occhi e lenti degli occhiali, per poi riuscire a ripartire con la Lambretta più vispa di prima e con le mani e fronte colore marrone SAE 90.
Però il confronto estetico, puramente stilistico, volge a favore indubbiamente della Lambretta. Le sue forme sinuose, quasi provocanti, non possono essere confrontate con la rozza Vespa.
Sarebbe come volere paragonare Belen Rodriguez con Cico Felipe Cayetano Lopez Y Martinez Y Gonzales spalla ed amico di Zagor.
E’ vero che la Vespa ha pochi pezzi di carrozzeria e quindi è facile da smontare e rimontare, ma a questo lato positivo si contrappone l’inevitabile conseguente forma a damigiana sbilanciata.
Ma, Vespa o Lambretta, l’importante è avere una passione.
Per quanto mi riguarda personalmente, il piacere di pianificare un lungo tour europeo, l’adrenalina nell’affrontarlo senza alcuna sicurezza nella tenuta nel mezzo ma nella consapevolezza che, in un modo o nell’altro, si sarebbe centrato il bersaglio nel cerchio più piccolo, è una grande soddisfazione.
Come dice Emilio quando veniamo sorpassati da qualche baldanzoso tedesco con immancabile BMW super accessoriata: “ti piace vincere facile”. Ma quando ti si guasterà qualsiasi cosa … chiamerai inevitabilmente un carro attrezzi.
Infine un appello a tutti gli eventuali lettori: per favore vi prego, quando ci incontrate al parcheggio ed ammirate il nostro scooter non dite mai “bella la Vespa!!!”.